Modalità con cui spesso mi rivolgo a me medesimo ad alta voce. La ricostruzione, ardimentosa arzigogolata, è per menti insane: seconda stagione universitaria, marzo 1993: in occasione del torneo calcistico organizzato a Marano, noi – io, pezzeco, il vollese, i fratelli figliano, Francesco “zelig”marino, eravamo il Bayern, ed io raccontavo le nostre gesta sul mio gazzettino (Dario’s Gazzetta), a varie firme (Dariadò, Alfio Dariuso, Darieppe Darioleo). Quest’ultimo, evidentemente ispirato al mitico Giuseppe Pacileo, vergava i suoi editoriali con la sua solita verve ellittica, fatta di ironia, insulti in napoletano, e soprannomi. Quello appioppato al sottoscritto, che si sbatteva – inutilmente – come un mulo, era “Dariuccio ciucariello”. Ancora oggi, oltre un quarto di secolo dopo, e come detto in incipit, mi rivolgo a me (in occasione di qualche auto-domanda, ad alta voce): “che dici dariuccio ciucarie’? Eh: che dici, ciuco? Che dici, ‘a ciucoooooo”?. Tutto ciò, peraltro, con un ingiustificato accento di confine tra romanesco e toscano. La follia è tutta qui, credo.